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Dalla redazione
venerdì 14 gennaio 2022

I dolcetti "razzisti"

Morello Pecchioli


I no-racistcake colpiscono ancora. L’ultimo dolce a cadere sotto gli strali dell’antirazzismo dolciario, del politically correct alimentare, è la torta di mele. Raj Patel, giornalista gastronomico del Guardian, l’ha bollata come razzista. Patel, inglese di origini indiane, l’accusa di essere un simbolo del colonialismo yankee: le mele di origini europee, portate in America dai coloni post colombiani, avrebbero contribuito al «vasto genocidio di popolazioni indigene». Come? Favorendo la colonizzazione di nuovi territori a scapito degli indiani. Il mitico pioniere John Chapman, conosciuto in Italia grazie a Disney come Giovannino Semedimela per aver speso la sua vita a piantare migliaia e migliaia di semi di mela in tutto il West, considerato dalla storia americana il profeta dell’ambientalismo e del naturismo, è visto da Patel come una sorta di John Chivington, il massacratore di pellerossa a Sand Creek.

Il gastro-giornalista del Guardian, dato che c’è, scomunica oltre alle mele anche la deliziosa crostina di zucchero sulla apple pie e perfino la tradizionale tovaglia di cotone a quadretti sopra la quale le nonne d’America (la più famosa è Nonna Papera che la prepara per Qui, Quo, Qua) depositano il dolce caldo di forno. Entrambi, zucchero e telo quadrettato, sono condannati come elementi «schiavisti» dallo scatenato no-racistcake perché, a suo dire, simboleggiano la tratta degli schiavi e il genocidio di milioni di indiani e africani sradicati dalle loro terre e costretti a lavorare in condizioni disumane nelle piantagioni di canna da zucchero e di cotone.

La torta di mele è solo l’ultimo dei dolci e dolcetti finiti nella lista di proscrizione degli estremisti del politicamente corretto, dolcetti colpevoli secondo il fariseismo linguistico di avere un nome, sia pure storico, razzista. Come i “moretti”, figurine antropomorfe di liquirizia che ben ricorda chi, bambino negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, li comperava dalla grassa lattaia prima di andare al cinema dei preti. Con 5 lire la donna pescava con la sessola dal vaso di vetro un cartoccino di “moretti” che durava un tempo del film, con 10 lire ci si riempiva la tasca e si succhiava liquirizia per tutta la pellicola.

Una sorta di “moretti” li faceva fino a poco tempo fa l’Haribo, l’azienda di dolciumi tedesca che solo in Italia fattura più di 50 milioni di euro. Erano caramelle gommose nere che riproducevano maschere tribali africane e delle antiche civiltà precolombiane. Usiamo i verbi al passato perché nonostante la potenza del fatturato o forse proprio per quello, l’Haribo non le ha più prodotte da quando sono finite nel mirino dei no-racistcake svedesi e danesi che puntarono il dito contro la ditta di Bonn accusandola di razzismo e minacciando il boicottaggio dei suoi prodotti.

Una sorte simile è toccata ad Agostino Bulgari, il re italiano dei marshmellow. Fatto bersaglio di pesanti ingiurie, ha dovuto piegare la testa e cambiare nome al celeberrimo Negrettino. Bulgari, che ha trasformato la pasticceria fondata dal nonno nel 1880 a Pavone Mella in provincia di Brescia in una azienda di fama europea, aveva ideato negli anni Settanta, prendendo ispirazione da dolci simili assaggiati durante un tour nel vecchio continente, questo panciuto bonbon di crema bianca d’albume d’uovo, ricoperto di cioccolato nero con una base di cialda croccante.

Un dolcetto semplice che piace un sacco ai bambini e ancor di più ai loro golosi genitori. Agostino è morto ottantasettenne nel gennaio scorso. Gli ultimi anni della sua vita sono stati amareggiati dai violenti attacchi da parte dei sostenitori del politically correct. Gli davano del razzista per aver chiamato Negrettino il Negrettino. Dare del razzista a Bulgari è stato come darlo a San Nicola, Santa Lucia, Babbo Natale, alla Befana e perfino a Gesù Bambino. A tutti quei santi e personaggi, cioè, che nel periodo delle feste natalizie portano giocattoli e dolci ai bimbi buoni. Nel piatto o nella calza dei dolciumi non manca mai il tradizionale Negrettino, dolce stagionale.

«Alla fine abbiamo dovuto cambiare nome al Negrettino», racconta il figlio di Agostino, Roberto, che adesso conduce l’azienda con il fratello Riccardo. «Lo abbiamo chiamato Bulgarino. Il papà che lo amava come un terzo figlio non riusciva a concepire il perché di tanta cattiveria e il fatto di doverlo ribattezzare. Ne ha sofferto tantissimo». A vendicare Agostino Bulgari ci pensano gli affezionati consumatori che continuano a chiamarlo col vecchio nome, ma anche Amazon ed ebay che vendono ancora lo spumoso dolcetto dei Bulgari col nome di Negrettino.

L’anno scorso toccò alla Migros, catena svizzera di supermercati (da non confondere con la catena italiana Migross, con due esse), togliere dagli scaffali, in seguito alle proteste antirazziste, i “mohrenköpfe”, teste di moro, dolcetti simili al Negrettino di Bulgari. «Abbiamo deciso di togliere il prodotto dal nostro assortimento», precisò Migros sui social, «perché il nome non corrisponde ai nostri valori». Quali valori siano, se etici od economici, si lascia l’interpretazione ai lettori. Valori, comunque, subito condivisi da altre catene della grande distribuzione svizzera che si affrettarono ad eliminare le teste di moro dal reparto dolciumi. La vicenda dei “mohrenköpfe” svizzeri non è ancora finita. L’azienda che li produce, la Richterich, non vuole cambiare il nome storico che, assicura sul suo sito (www.richterich-ag.ch)  «non ha nulla a che fare con le persone dalla pelle scura, ma che deriva da moor che in tedesco antico significa cinghiale». Testa di cinghiale, dunque. Niente male come capriola.

I primi “moretti” risalgono ai primi del secolo XIX, inventati, pare, in Danimarca. Si diffusero presto in tutta Europa. I francesi li chiamarono, e li chiamano tuttora, “tête de nègre”, testa di negro. Uguale significato hanno i “negerinnentet” belgi e i “negerzoen” olandesi. Ci si chiede cosa succederà alle Morositas, giuggioloni neri, morbidi come la modella di colore Cannelle che negli anni ottanta, nel periodo del suo maggior splendore, li pubblicizzò in una serie di spot.

Anche Roberto Zottar, membro del Centro studi Franco Marenghi dell’Accademia italiana della cucina, in un articolo pubblicato su Civiltà della tavola, la rivista dell’Accademia, si pone interrogativi sull’eventuale cambio di nome di prodotti e piatti italiani tra i quali cita il vino Negroamaro, il budino Moretto, la birra Moretti, l’amaro Montenegro, l’aperitivo Negroni, il salame Negronetto del salumificio Negroni di proprietà del Gruppo Veronesi. «Credo che il politicamente corretto», scrive Zottar, «rischi di essere talvolta una forma di censura che condanna ciò che non appare in linea con le tendenze culturali attuali. Personalmente tremo al pensiero che simili dibattiti possano innescarsi nell’Italia gastronomica perché metteremmo a rischio molte specialità dai nomi politicamente scorretti. Capita infatti di imbattersi spesso in pietanze dai nomi curiosi e forse poco invitanti».

Molto poco invitante è, tra i formaggi, il puzzone di Moena. Tra i salumi non sono da proporre a persone con la puzzetta al naso i coglioni di mulo, le palle del nonno e nemmeno sua maestà il culatello di Zibello. Ricordano i postriboli napoletani gli spaghetti alla puttanesca. Nomi nati in passato dalla cultura contadina, codificati da secoli di storia. Come gli strangolapreti trentini che alcuni storici della tavola sostengono nati all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563) e così chiamati per la voracità con cui venivano divorati da certi panciuti cardinali. Avrebbero lo stesso buon sapore se il Vaticano in nome del politicamente corretto chiedesse di cambiare il loro nome in “gnocchetti di pane raffermo e spinaci alla trentina”?

 

Tratto da "La Verità"

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