Paolo Chinellato
Oggi la ricerca della qualità in viticultura deve sempre più integrarsi con la sostenibilità e l’impatto ambientale: basti pensare che l’impiego dei fungicidi in campo enologico arriva al 65%, mentre, nel quadro del patrimonio agroalimentare, la Viticoltura rappresenta solo il 3% di questo mondo. L’impatto dei fitofarmaci nel territorio sta diventando decisamente sempre meno sostenibile, mentre si sviluppano forme infettive più aggressive e resistenti in una continua lotta senza quartiere di cui l’ambiente subisce il danno peggiore. Ricordiamo anche che fino all’Ottocento l’impiego di fitofarmaci era pressoché sconosciuto, mentre già allora il prodotto vino risultava di interessante e pregevole qualità con grande vantaggio dell’ambiente e dei consumatori. Per approfondire questi temi si è svolto un interessante convegno presso l’Azienda “Le Carline“ di Lison Pramaggiore, che da oltre 30 anni lavora nel comparto del biologico ed oggi anche nel vegano, collaborando con più Università e con la Regione Veneto – Veneto Agricoltura.
Da queste importanti considerazioni nasce la necessità di cambiare la filosofia della salvaguardia della vite e del vino cercando non nuovi farmaci, ma una nuova strategia: la ricerca di viti dotate di resistenza naturale diretta alle malattie (almeno quelle più comuni, come la peronospora e l’oidio) e l'incrocio con le piante tradizionali allo scopo di trasferirne le naturali difese senza perderne le pregiate caratteristiche organolettiche. La genetica ha dato al riguardo contributi notevoli nella ricerca dell’ereditarietà dei caratteri, l’attitudine combinativa dei parentali d’incrocio, la predisposizione di “mating design“ che hanno permesso di migliorare la selezione di nuove varietà di vitigni, visto che l’eterozigosi della vite rendeva difficile la programmazione dell’ideotipo che portava a scarsi successi degli ibridi di 2° e 3° generazione. Programmi mirati di incroci controllati, attivi in 25 centri in Europa che a partire dal 2000 hanno avuto un notevole impulso e, con il successivo sequenzionamento del genoma della vite (2007), hanno portato al controllo dei principali caratteri, incluse le resistenze.
Oggi le varietà resistenti registrate in Europa sono circa 370 e, tra queste, rientrano le 10 licenziate dall’Università di Udine (con il Prof. Raffaele Testolin, Relatore del Convegno) in collaborazione con l’Istituto di Genomica Applicata, i cui diritti sono stati ceduti ai Vivai Cooperativi di Rauscedo, leader mondiale nella produzione di barbatelle innestate.
Una domanda sorge spontanea: la resistenza è onnicomprensiva, ovvero le “nuove“ viti resistono a tutto? Ovviamente no, perché queste viti risultano resistenti alla peronospora e, in molti casi, all’oidio, ma le malattie della vite sono numerose e servirebbe identificare i geni di resistenza specifica e lavorare per introdurli attraverso tecniche di incrocio controllato o attraverso la trasformazione genetica (o cisgenesi) per introdurli direttamente nel genoma della vite.
Queste nuove tecnologie di ibridazione e ”manipolazione” del DNA ci fanno intravvedere la prospettiva di mantenere le vecchie varietà rendendole resistenti con interventi molto limitati che non lasciano praticamente traccia dell’evento soprattutto nel patrimonio organolettico.
Per questo nasce la linea dei vini Resiliens dell’azienda “Le Carline”, il cui nome racchiude un significato molto profondo che fa della “Resilienza“ (ancora più vasto del termine Resistenza) il proprio carattere distintivo: vitigni in grado di adattarsi e resistere alle infezioni come le malattie fungine, ma anche all’attacco del freddo e delle avversità atmosferiche senza ricorrere a pesticidi a cui l’Unione Europea ha detto finalmente basta.
In degustazione: