di Antonio di Lorenzo
Il suo rapporto con il vino – che esiste ed è un legame leale – è diventato una leggenda, da quando Paola Cortellesi, sua partner in Petra ha spiegato che con Andrea Pennacchi ha imparato a bere, lei che era astemia. Il dialogo l’ha raccolto Michela Tamburrino de La Stampa alla presentazione della seconda stagione della serie tv riportando un veloce botta e risposta tra i due. Cortellesi: “Con Pennacchi si rinuncia alla serenità e alla sobreità”. E lui, di rimando: “Prima Paola non beveva, ma per stare con me…”. In seguito, il grande attore padovano ha precisato a Il Gazzettino la portata di questa contaminazione alcolica: “In realtà – ha spiegato a Giambattista Marchetto in una intervista – le ho offerto al massimo un Prosecco a fine riprese. A Paola piace giocare su ‘sta cosa dei veneti che bevono e poi i titolisti hanno fatto il resto. Ma è assolutamente morigeratissima”.
Lo hanno battezzato “il bardo di Brusegana”, per la sua capacità di affabulazione e anche per l’ultimo libro che ha scritto, intitolato Shakespeare and me. Intanto, sotto il profilo professionale, gli ultimi anni Andrea Pennacchi li ha vissuti a ritmi elevatissimi. Come ti giri, lui sbuca fuori: cinema, televisione, libri, teatro.
Perché un libro su Shakespeare e perché lei sostiene che le ha cambiato la vita?
Una volta si diceva: Dio è Morto, Marx si sente male… ma Shakespeare, credetemi, sta benissimo. Tutto il suo corpus è una mappa delle relazioni umane di pronto utilizzo, ma a patto di continuare a lavorarci sopra, come meccanici, come giardinieri, di non considerarlo mai un testo sacro immobile e inamovibile.
Com’è lavorare con Paola Cortellesi?
È un’esperienza bellissima per tanti motivi. Primo perché lei è una bella persona oltre che essere una delle migliori attrici in Italia. È una professionista serissima ma al tempo stesso non è puntigliosa e non se la tira, anche se potrebbe permetterselo.
E la regista, Maria Sole Tognazzi? Ha un cognome pesante.
Ma sarebbe uno sbaglio fermarsi lì, perché lei si guadagna il suo merito sul campo, non tanto perché è la figlia di Ugo. È una delle registe più preparate che esistono.
Lei ha un dottorato in filologia: cosa le ha insegnato questa disciplina?
La filologia mi ha insegnato che quando fai qualcosa di artistico e letterario devi essere molto preciso. Dalla linguistica ho imparato che un determinato uso delle parole ha effetti precisi. Se capisco qualcosa di più di teatro e della vita è stato merito di quegli studi.
Lei ha interpretato al cinema anche il papà di Baggio, Florindo: lui cosa le ha insegnato?
Come ha detto Roberto, a volte i genitori sono severi, duri, magari non ti dimostrano apertamente l’amore che ti portano, ma in realtà ti amano tantissimo e si comportano in modo severo solo per renderti più forte e meno vulnerabile alla vita.
Lei ha trasformato suo papà anche in uno spettacolo: ha detto che lui faceva fatica a far capire il bene che voleva alle persone.
Per gli standard veneti papà era comunque molto affettuoso. Ho pochi ricordi di abbracci con mio padre, se non verso la fine, ma solo perché non glielo avevano insegnato. Era molto più sorridente e divertente del papà di Baggio. Non si tirava indietro sulle battute. Su altre cose era simile. Quando tornavo da scuola con un bel voto lui commentava: hai fatto il tuo dovere.
Siamo tutti Pojana?
Raramente esiste Pojana in purezza, dentro ognuno di noi ce n’è un po’. Emerge a tratti. Ci sono interviste di imprenditori veneti che sembrano scritte da me. Poi magari sono persone impegnate a fondo nel volontariato, che fanno beneficenza. Il Veneto ha queste contraddizioni.
Che non sono tipiche solo del Veneto.
Macché. Alla seconda apparizione a Propaganda, un signore ha scritto su Facebook: questo parla in veneto, ma è il mio vicino di casa. Era sardo.
Pojana è nato da un mix di ferocia, ironia e verità.
Certo. E cerco di tenere sempre insieme questi ingredienti. La verità è fondamentale: l’ironia senza la verità è un esercizio di stile, da nobili del Settecento prima della ghigliottina.
Lei che li racconta, come vede le qualità dei veneti?
Intendiamo il lavoro come una qualità ed è una caratteristica positiva che non ci toglie nessuno. Il lavoro non è visto come produzione di schei, ma come filosofia di vita: se tu lavori bene hai una qualità come persona.
E i difetti? Lei ha detto: porto sul palco un territorio tra l’accumulo e la sconfitta.
Sicuramente continuiamo a pensare in piccolo. Ci manca il fiato di respirare su orizzonti più ampi. Però siamo generosi. Insomma, siamo molto più complicati e complessi di come noi stessi ci presentiamo.
Le parole raccontano la nostra storia. E nessuno meglio di un filologo lo sa.
Le parole mi piacciono moltissimo. E nel Veneto perfino la geografia non è affidabile, nel senso che non è mai neutra: guardi i nomi dei luoghi, che pullulano di storie. Vede, l’uomo traccia il suo paesaggio con le storie, come gli aborigeni australiani tracciano le loro coordinate attraverso le vie dei canti.
A proposito, il vino è paesaggio e il paesaggio nel Veneto sta soffrendo molto. Lo abbiamo rovinato. È d’accordo?
Fino a un certo punto della nostra storia non ha sofferto. Poi le cose hanno preso una brutta piega ma perché l’uomo ha preso una brutta piega. Il fatto è che il paesaggio, da solo, non esiste: senza uomini il paesaggio non esiste. Nel Veneto il paesaggio è stato asservito agli scopi utilitaristici, non è stato più complice e collaborativo come nel passato.
Il paesaggio veneto è la trama della nostra storia. Per questo anche i vini sono buoni perché raccontano la storia del luogo e del produttore.
Ogni paesaggio è un panorama di storie, che si sovrappongono a strati, come la millefoglie: alcune sono piccole, altre profonde, altre ancora arrivano lontano. Queste storie sono in costante mutamento, come i nomi delle strade di una città, come i corsi dei fiume. E se hai fatto bene in vita, alla fine del tuo cammino diventi paesaggio anche tu, un antenato.
Una bella prospettiva. Ma cosa ci dice, oggi, il paesaggio del Veneto?
Basta girare a piedi o in bicicletta e capisci che sei al centro di una rete di sicurezza, che la rete dei canti che hanno tracciato su questa terra gli antenati, dalle memorie dei nonni risalendo sino ai Venetkens di Isola Vicentina. Questa rete dà senso a te, alla tua esistenza. È una rete di comfort circondata dal caos, dal mistero, che va tessuta e ritessuta man mano che cresci. A questo serve popolare un paesaggio di storie: a dare senso a te.
Cosa c’è oggi nel Veneto che merita una riflessione?
C’è da sfatare il mito dei bei tempi andati. Il passato non è migliore del presente. Ci sono, nell’uno e nell’altro, aspetti critici e altri positivi. Secondo me dalla storia passata dobbiamo trarre le forza di recuperare qualcosa che abbiamo perso o dimenticato.
Per esempio?
Un approccio alla vita più gioioso.
Sarà. Ma nel recente passato eravamo più poveri. Condanniamo il benessere?
No, io non faccio un elogio della povertà. Ma condanno l’avidità che fa disprezzare tutto il resto.
Si parla molto di identità veneta. Come la vede lei?
L’identità, se la prendi dal lato sbagliato, vuol dire mettere muretti a qualcosa che non deve avere confini. Perché diventa un mascherone funebre quando invece l’identità è flusso, movimento; c’è dentro un pezzo di antico, che va mantenuto, assieme a qualcosa di nuovo che va accolto. L’identità di un popolo non è mai statica: prendi la polenta, che a noi sembra una tradizione immutabile, in realtà è un’invenzione importata dall’America. Il fatto è che ogni tanto arriva qualcuno che dice: Io so cos’è l’identità, è questo, questo e quest’altro. Ma sono destinati a essere spazzati via dalla Storia.
Articolo originariamente apparso sul numero 02/2022 di Vinetia Magazine.