di Alessandra Biondi Bartolini
Il termine biodiversità, parola chiave dei principi dello sviluppo sostenibile, è relativamente recente e nasce negli anni ’80 dalla crasi – la fusione – di due parole inglesi, biological e diversity.
Come una grande lente che mette a fuoco ogni particolare partendo da un quadro generale, la biodiversità descrive la varietà e la ricchezza della vita su tutti i livelli possibili: sulla Terra, in un singolo ambiente specifico e più o meno complesso (naturale, urbano o agricolo come nel caso di un vigneto) o all’interno di un singolo genere o specie. È a quest’ultima, la diversità genetica che differenzia le specie e le varietà del genere Vitis, che ci si riferisce quando si parla di biodiversità viticola.
Per dare un quadro esaustivo partiamo da lontano: per quanto ci possa sorprendere non è l’Europa ma sono l’America e l’Asia le aree geografiche dove il genere Vitis gode della maggiore biodiversità, con quasi 80 specie diverse.
Nella culla della civiltà del vino al contrario è presente una sola specie, la Vitis vinifera, con due sottospecie strettamente imparentate, la Vitis vinifera sylvestris selvatica e la Vitis vinifera sativa, diretta discendente dalla domesticazione della prima. E qui salutiamo Linneo e la tassonomia e cominciamo a parlare di varietà e di vitigni, perché con diverse migliaia di varietà, la vite è una delle piante coltivate caratterizzata da maggiore biodiversità. Secondo quanto riportato dal focus redatto da OIV nel 2017 sulla distribuzione delle varietà di uva nel mondo, è possibile stimare che esistano circa 6.000 varietà di vite da vino e da tavola.
Il motivo di tanta varietà è legato al grandissimo successo della coltivazione della vite e ai continui scambi di materiale vegetale, semi, tralci e piante che hanno attraversato confini, mari, catene montuose e continenti da almeno 7.000 anni. A questo si è aggiunta, come in tutte le piante coltivate, la capacità degli agricoltori e degli scienziati di migliorare, incrociare, selezionare e valorizzare i caratteri utili.
In realtà questo percorso non è del tutto lineare e al numero elevato di varietà esistenti non corrisponde necessariamente una altrettanto elevata distribuzione della diversità. Nel mondo un terzo della superficie vitata è occupata dai primi 13 vitigni più diffusi, mentre si arriva a interessare fino al 50% del vigneto mondiale se si prendono in considerazione 33 varietà.
La rete delle parentele tra i vitigni attuali, che gli studi di genomica applicata consentono di descrivere e ricostruire, riconduce inoltre a pochi capostipiti, i vitigni di maggior successo del passato che difficilmente coincidono con quelli di oggi e che hanno continuato a essere trasportati, moltiplicati e incrociati.
Come riporta uno studio pubblicato nel 2011 sulla rivista scientifica PNAS che ha analizzato più di 1.000 campioni di vite coltivata e selvatica, i pedigree dei vitigni sono molto imparentati e hanno continuato a scambiarsi solo pochi geni, aumentando di fatto il numero di varietà ma non necessariamente la biodiversità genetica. Un po’ come avveniva negli ambiti ristretti della nobiltà o (e i lettori blasonati mi scuseranno questo accostamento) negli albi genealogici delle razze animali.
E quindi dove è nascosto il tesoro di biodiversità da conservare e proteggere? La risposta è nelle varietà autoctone o di territorio, che a volte si definiscono minori ma che rivestono un’importanza grandissima per il futuro della viticoltura. Perché di fronte ai mutamenti delle condizioni ambientali o alla pressione di nuovi patogeni o insetti dannosi, o anche soltanto con l’evoluzione del gusto dei consumatori, accade sempre più spesso che caratteri che sembravano poco interessanti ieri o l’altro ieri, a volte gli stessi che ne hanno decretato l’abbandono nella viticoltura moderna e da reddito, diventino preziosi.
L’Italia rappresenta nel panorama viticolo mondiale uno dei paesi con maggiore diversità viticola, con 610 vitigni di uva da vino iscritti al Registro Nazionale delle Varietà di Vite e i primi dieci vitigni (alcuni dei quali peraltro autoctoni come il sangiovese, il montepulciano o il glera) che occupano soltanto il 38% della superficie vitata. A questi si aggiungono una grandissima quantità di biotipi, “relitti” vegetali a volte presenti solo in alcuni esemplari e a forte rischio di erosione genetica o di estinzione, conservati dai viticoltori o nelle collezioni, ma non ancora registrati e quindi non disponibili per la coltivazione.
Mentre l’interesse degli scienziati è per i geni e i caratteri, che possono essere utili nei futuri programmi di miglioramento, il ritorno nei vigneti di queste varietà di territorio può rappresentare un’opportunità reale per valorizzare le produzioni locali e le aree interne, quelle stesse che ne hanno consentito il recupero e la conservazione nei secoli.
Alberto Palliotti, docente di Viticoltura all’Università di Perugia e coautore con Oriana Silvestroni e Stefano Poni dell’Atlante dei Vitigni e Vini di Territorio. Genotipi italiani autoctoni poco noti e diffusi, edito nel 2022 da Edagricole, spiega così il ruolo delle aree interne e montane nella conservazione della biodiversità viticola: “In Italia Centrale soprattutto, l’Arca di Noè della biodiversità viticola si colloca sulla dorsale appenninica. Per fare un esempio in Abruzzo, la mia terra di nascita, fino agli anni ‘30 o ‘40 la coltivazione della vite era relegata alle colline più alte e alle zone pedemontane dei massicci montuosi, quali Gran Sasso, Majella, Monti della Laga e altri ancora. Non c'erano vigneti sulle pianure né nelle colline più basse lungo la costa. Era una viticoltura marginale, molto semplice, fatta di vigneti piccoli e fitti, lavorati a mano o talvolta con l’aiuto degli animali. Quando negli anni ‘70, con l’avvento della meccanizzazione e i contributi europei FEOGA per i nuovi impianti, si è cominciato a vedere un nuovo business nella possibilità di produrre in quantità, in un momento nel quale non si parlava ancora di qualità, la viticoltura si è trasformata e le aree più difficili sono state abbandonate a favore della pianura e della costa”.
Una storia che si potrebbe estendere a molte regioni italiane, dove i tanti vitigni locali nati in un passato di autosufficienza e di frammentazione geografica e amministrativa, con il passaggio alla viticoltura da reddito sono rimasti relitti di agricolture ormai marginali.
“La pressione selettiva poi da quelle parti è stata molto lenta, quasi inesistente. Sono stati nella maggior parte dei casi gli agricoltori più anziani e conservatori che hanno mantenuto le tradizioni e continuato a curare le piante che loro ritenevano migliori e che apprezzavano, a volte perché legate agli eventi e alle tradizioni familiari, i matrimoni, le feste. Di fatto noi abbiamo molte zone oggi marginali, a volte abbandonate dall’agricoltura, ma dove 50, 60 o 70 anni fa l’uomo era molto presente, e traeva il suo sostentamento per sé e per la sua famiglia da queste aree difficili, coltivando il bosco e i pianori, a 700, 800, 900, 1000 metri” aggiunge Palliotti.
È la storia del grero in Umbria, la cui pianta madre cresce ancora maritata a un acero campestre in una collina vicino a Todi, o del nero antico di Pretalucente che nasce sulle cave di gesso nel comune di Gessopalena in Abruzzo, o del sorantonio in Molise e il centesimino in Romagna che prendono l’appellativo dai nomi e i soprannomi di coloro che li hanno conservati, per citarne solo alcuni.
“Ci sono tantissimi biotipi e varietà che non si sono affermati perché evidentemente presentavano dei problemi, un eccesso di acinellatura, una produzione scarsa, un’acidità o una spalla acida molto potenti oppure un tannino a volte troppo difficile e a volte del tutto assente. Ma probabilmente questa è anche la loro ricchezza. Quelli che erano difetti, oggi sono difficoltà che a livello viticolo si possono superare, mentre i profumi e i metaboliti più particolari sono i caratteri che li rendono unici e riconoscibili”. Aspetti di narrazione e di curiosità per i quali i consumatori, soprattutto i più giovani, nutrono un interesse sempre maggiore.
La conservazione della biodiversità può avvenire in situ, nelle aziende dove le piante madri o i vecchi esemplari vengono individuati e protetti, o ex situ, nei campi e vigneti collezione, dove si raccolgono per essere conservati e valutati in condizioni omogenee, un po’ come in un orto botanico o uno zoo delle viti.
Una volta che i biotipi sono stati caratterizzati dal punto di vista genetico e che dal confronto con tutte le varietà già esistenti si è stabilito che si tratta di genotipi unici, si possono moltiplicare nei campi sperimentali, dove sono descritti nelle loro caratteristiche agronomiche e dove le uve sono raccolte e micro-vinificate per valutarne le potenzialità enologiche. Tutte queste informazioni, insieme alle notizie e ai documenti che attestano la storia di un presunto vitigno all’interno di un territorio, sono quindi raccolte in un dossier che servirà per far riconoscere le varietà in modo ufficiale e iscriverle al Registro Nazionale delle Varietà di Vite. È solo a questo punto che vivaisti e produttori potranno rispettivamente moltiplicarle e utilizzarle nei loro vigneti e vini (salvo un ulteriore passaggio di iscrizione nei registri Regionali).
Il processo per far tornare un biotipo ritrovato a essere una varietà riconosciuta e coltivata (facendola così uscire dalla sua “riserva indiana”) non è quindi semplice né breve, ma nei confronti di questo patrimonio viticolo c’è sempre più interesse e in molti, istituti di ricerca, professionisti e produttori, ci si stanno dedicando.
Tra questi “cacciatori di biodiversità” c’è Mauro Carboni, agronomo parmense specializzato in biodiversità agraria e recupero di varietà antiche, che lavora al fianco dei viticoltori e i produttori custodi e che ci ha raccontato le difficoltà e le opportunità legate alla coltivazione della biodiversità.
“Soprattutto in Italia – spiega Carboni – dove abbiamo il più grande patrimonio di biodiversità agraria, questa deve essere vista come un’opportunità. Alle varietà delle piante che si coltivavano e delle razze che si allevavano è legata la storia, la tradizione enogastronomica, gli usi, le abitudini alimentari e quindi parlare di biodiversità significa parlare di cultura italiana a tutti gli effetti. Ogni zona aveva selezionato i vitigni che meglio si adattavano a quel contesto, ma non ce n'era soltanto uno, c'era anche l’uva per il vino che serviva per colorare (quando si diceva che un buon vino rosso doveva sporcare il bicchiere), quelle più zuccherine, quelle da tavola, quelle che producevano in quantità (non dimentichiamoci che in passato il vino era un alimento, necessario a dare calorie e fronteggiare la carenza e la penuria di cibo). Ogni vitigno aveva la sua storia”.
Come quella della termarina per esempio, pianta praticamente quasi estinta, dall’uva dolcissima, apirena e con un acino piccolissimo. “Nel territorio emiliano la termarina era coltivata in cima a ogni filare per alzare il grado alcolico delle altre varietà, si mangiava come uva da tavola e veniva cotta per farne una riduzione, quasi una marmellata da tagliare a cubetti e conservare” racconta l’agronomo parmense.
Oggi sono proprio queste storie e queste peculiarità quello che può restituire valore, anche economico, alle aree rurali e alle varietà meno blasonate. “Oltre al fatto di portare avanti le nostre storie e tradizioni, che sono uniche e riconoscibili e che, a differenza di quanto può avvenire coltivando vitigni internazionali, non sono imitabili. Coltivare biodiversità – continua Carboni – però non è semplice, perché si è creata in contesti non attuali e di conseguenza anche la coltivazione e la vinificazione vanno approfondite e per farlo occorre molta sperimentazione, per trovare lo stile più adatto e interessante. Alcuni richiedono un appassimento o una macerazione e affinamento prolungati, altri si consumano molto giovani”.
Strade nuove per vitigni antichi, da individuare indipendentemente dalla loro fama enologica, per scoprire che la diversità viticola potrebbe servire proprio a soddisfare la diversità di gusti e la sete di storie del pubblico. “La stessa fortana, un vitigno e un vino spesso poco valorizzati perché di bassa gradazione e con caratteristiche considerate forse non eccelse, deve essere considerata e interpretata per quello che è. E capita così di scoprire che ci sono degli appassionati e consumatori che magari la apprezzano proprio per la gradazione bassa e la semplicità”.
Articolo originariamente pubblicato sul numero 02/2022 di Vinetia Magazine.