Federica Spadotto
Ah, il Carnevale!
E’ terminato da poco e, ve lo confesso, non me ne sono quasi accorta.
A parte alcune, sparute maschere - rigorosamente straniere - sui ponti di Venezia, soltanto le vetrine delle pasticcerie con i vassoi di frittelle e galani mi hanno fatto balenare il ricordo di questo periodo festoso invaso dai coriandoli colorati e dalle stelle filanti.
C’è chi dice che va bene così, in tempi di Covid e di guerra: una questione di rispetto, di senso civico, di sobrietà che mette al bando l’allegria, la spensieratezza, il desiderio di travestirsi per un giorno o solo per qualche ora.
Eppure sembra che il periodo intercorrente tra Natale e Quaresima, di antica tradizione pagana ed in seguito ben radicato nel cristianesimo, affondasse le sue origini proprio nelle carestie e nei frequenti conflitti, allo scopo di sollevare le anime da una condizione di vita spesso al limite della sopravvivenza.
La stessa etimologia della parola carnevale deriva da “carne levare”, ovvero “eliminare la carne” e si riferisce al banchetto del martedì grasso, cui sarebbe seguito il periodo di astinenza in vista della Pasqua.
Ad alcuni popoli molto meno politically correct di noi tuttavia, la parentesi di spensieratezza appena citata non sembrava sufficiente e, in tempi assolutamente non sospetti, vivevano il periodo quaresimale con una certa insofferenza.
Con “alcuni popoli” alludo ai disciplinati tedeschi e con “tempi assolutamente non sospetti” al religiosissimo Medioevo.
Nell’epoca simbolo di devozione, cui il nostro immaginario si rivolge per trovare figure emblematiche in fatto di ascetismo, i parroci di molte comunità d’oltralpe erano alle prese con un problema assai difficile da gestire, ovvero le chiese poco frequentate durante la Quaresima, sino a coinvolgere la messa di Pasqua.
Proprio in questa occasione, apprendiamo dai documenti antichi (i primi risalgono al IX secolo) che molti di essi s’ingegnarono ad attrarre i fedeli con una specie di spettacolino in cui, durante l’omelia, si denudavano, sputavano sulla coppa, si toccavano il basso ventre proclamando “qui c’è vino migliore” o facevano irrompere un maiale, accompagnandone l’ingresso con parolacce e lazzi osceni.
Lungi dall’offendere i partecipanti, questa messa in scena innescava un divertimento esplosivo, che si traduceva in generali e grasse risate, da cui prese il nome di risus pascalis.
Giudicato in modo controverso dai teologi, è considerato dagli studiosi un approccio alla fede all’insegna della gioia, che gli ha consentito sopravvivere sino agli inizi del secolo scorso.
Irriverente e controversa, la sua natura assomiglia a quella del vino: simbolo dei festini bacchici, delle orge e della follia, diviene il sangue di Cristo nel calice eucaristico, assurgendo a metafora del sacrificio di Dio per gli uomini.
Il risus pascalis ci invita, in un certo senso, a riflettere sulla fragilità di molti pregiudizi che accompagnano le nostre certezze, insegnandoci che il più delle volte è solo una questione di prospettiva.