Federica Spadotto
Si può essere felici mangiando polenta?
Domanda oziosa se consideriamo la quantità di ricette scaturite da questo piatto rustico a base di farina di granoturco e proposte addirittura da chef stellati in abbinamento a nobili ingredienti.
Se dovesse rispondere la mia ormai defunta nonna, invece, non ci sarebbe discussione: la polenta è il cibo della miseria e della guerra, una sorta di metafora del male. La ricordo protagonista di tristi racconti in cui dominavano fame e privazioni, sostituendosi, nel mio immaginario di bambina, all’uomo nero che arriva e ti toglie le cose più care.
Grazie al fantasma della polenta ho ingurgitato ogni pietanza, anche la più ostica, e per questo si è fissata nel mio immaginario come un totem negativo.
Con il passare degli anni, tuttavia, il pesante velo del pregiudizio si è confrontato con nuove situazioni, per me assolutamente improbabili ma, allo stesso tempo, così eloquenti da mettere in discussione la tetra premessa da cui sono partita, celebrando, invece, l’epopea di questa pietanza del colore del sole.
Tutto è iniziato una decina d’anni fa, quando il destino mi fece imbattere in un singolare ciclo di affreschi che decoravano il salone di una villa nella campagna rodigina. Accanto alla celebrazione allegorica della famiglia che l’aveva fatta erigere comparivano alcune cornucopie a scandire il ritmo degli episodi. Circostanza consueta in questo tipo di apparati, se non fosse che tra le primizie chiamate a rappresentare i doni di madre natura faceva bella mostra di sé una pannocchia, madre della polenta.
Tale inserto aveva, in realtà, tutto il diritto di conquistarsi la scena poiché, in quello scorcio di Cinquecento in cui era stata dipinta, e nel luogo dove si trovava, nulla avrebbe potuto risultare più azzeccato. Essa rappresentava infatti l’omaggio del committente ad una mirabilia giunta in Europa dalle Americhe, come tramanda con orgoglio il veneziano Giovan Battista Ramusio nel volume "Delle navigazioni e dei viaggi" (1554), in cui cita il territorio del Polesine come luogo d’elezione della “famosa semenza”, che tingeva i campi di bianco e di rosso.
Quasi due secoli più tardi i figli della Serenissima onoravano ancora il cereale d’oltreoceano immortalando la polenta, divenuta tra le pietanze più tipiche del nord Italia. Nel capolavoro di Pietro Longhi, databile alla seconda metà del Settecento, un allegro gruppetto di popolani le fa da capannello mentre viene versata da un paiolo al centro del tavolo, divenendo fulcro della composizione in un contesto di spensierata allegria.
Nello stesso periodo Giandomenico Tiepolo la incastona in un affresco nella foresteria di Villa Valmarana “ai Nani” a Vicenza, ovvero nel medesimo contesto nobiliare che aveva eletto il mais a metafora dell’abbondanza.
Soltanto che questa volta la polenta si cala nell’umile quotidianità: il pasto dei contadini; essa è posta sul tavolo, ma non accompagna la medesima atmosfera della brigata longhiana. A catturare la nostra attenzione è la donna all’estrema destra, intenta a portarne una forchettata alla bocca con un’espressione mesta e rassegnata: sta guardando il fanciullo tra le braccia del padre e sembra pensare alla vita che lo aspetta, costellata di fatica e di stenti.
Nonostante la gaia tavolozza mista di rosa e d’azzurro, la difficile situazione dei contadini veneti irrompe sulla ribalta pittorica, comunicando la propria dignitosa sofferenza.
Ogni volta che guardo quella donna mi si stringe il cuore e ripenso ai racconti di quando ero bambina, alla mia ingenuità e alle mie paure infantili, che riemergono come fantasmi in quegli occhi dipinti: gli stessi occhi della mia antenata.