Federica Spadotto
Ci sono molti di modi di conoscere Venezia… ed altrettanti di amarla.
Il primo passo è la visita alla città sospesa sull’acqua, dove le facciate dei palazzi sul Canal Grande si riflettono creando trascoloranti giochi di luce. Percorrere i campi e campielli collegati dagli innumerevoli ponti immerge anche il più scettico dei turisti in una sorta d’incantesimo, che culmina in Piazza San Marco.
Qui il sogno acquista i connotati dell’epopea politica e la fantasia si materializza in strani “capricci” artistici, che vedono i cavalli di Costantinopoli ornare la facciata della Basilica insieme ai mosaici bizantini sfavillanti d’oro, per condurre l’attenzione alle colonne dei santi patroni, Marco e Todaro, anch’esse trafugate dall’Oriente e rivolte alle acque della Laguna.
La Laguna, appunto, un ritaglio di mare che incornicia il molo: solo questo ha rappresentato per molti visitatori -e per gli stessi veneziani- in epoche passate. Lo stesso vale per le isole che la punteggiano, sede dei primi insediamenti del popolo veneto, ricche di monumenti distrutti dal tempo e dall’incuria, ma soprattutto centri di produzione agricola, essendo Venezia una città priva di spazi verdi.
Se nei primi secoli della sua fondazione si contava un “campo” coltivato per ogni nucleo di caseggiati urbani - da cui discende l’attuale toponomastica -, fino a coinvolgere la stessa Piazza, dove vennero addirittura piantati alberi da frutto, con il passare del tempo il fulcro della Serenissima dovette cedere spazio allo sviluppo urbanistico, dedicando ogni centimetro di suolo al sempre maggior numero di abitanti.
Le gioie dispensate dalla natura venivano quindi decentrate nell’entroterra, deputando invece la coltivazione degli ortaggi alle citate isole, note come “gli orti di Venezia”.
Assenti nel repertorio del vedutismo ed ignorate dai gentiluomini del Grand Tour durante il soggiorno in Laguna, le isole riaffermano la loro presenza sulla ribalta artistica nel secondo Settecento, quando Francesco Guardi (Venezia, 1712-1793) ed il figlio Giacomo (Venezia, 1764-1835) le ritraggono alla stregua di cartoline. Vi giungono in barca e scelgono una visuale che ne evidenzi la fisionomia, spesso punteggiata di verde, su cui si ergono le vestigia di antichi monumenti.
Proprio come accade oggi a Mazzorbo, dove il campanile della chiesa di Santa Caterina, edificata nel XIII secolo, svetta solitario tra i filari di dorona, il vitigno autoctono tornato da poco agli onori dell’enologia. Sembra vegliare sulle fragili piante, che lottano contro la marea per sopravvivere e sigillano il magico silenzio dell’ “altra Venezia”.
Quando vi si giunge, scendendo dalla barca, dopo aver riconosciuto i contorni frastagliati dei dipinti guardeschi, si assapora una magia affine a quella della città; Mazzorbo custodisce il seme della Venezia antica e ne preserva intatto lo spirito, incarnato dalle sue vigne e dal silenzio, mosso soltanto dal volo degli uccelli.
Il moderno ristorante Venissa, separato dall’omonima locanda attraverso un prato, sembrerebbe stridere, a prima vista: un’essenziale sagoma di ferro brunito dal sapore avveniristico, che invece dialoga con la natura bussando alla sua porta con il rispetto di un figlio devoto.
Seduti al tavolo inizia un nuovo viaggio, in cui la cucina diviene molto più di una rappresentazione del territorio per raccontarlo, celebrarlo, offrirsi come un gesto d’amore. Oriente ed Occidente s’incontrano, come nella città del leone; dialogano evocando emozioni, ricordi, addirittura aneddoti dimenticati.
Uno di essi narra di un frutto chiamato angriolo, importato in Laguna dalla Dalmazia a seguito di un rocambolesco naufragio, la cui pianta, fissata nella stiva per sostituire l’albero maestro andato distrutto, si trovò talmente a suo agio da regalare ai marinai primizie dal sapore dolce e pungente allo stesso tempo.
Anche la degustazione del vino dispensa un’esperienza unica e senza dubbio al di fuori degli schemi per quanto concerne il bouquet di profumi e la persistenza gustativa, ribadita dall’etichetta che avvolge la bottiglia di Venissa, realizzata in lamina aurea dall’ultimo dei “battiloro” veneziani. Vi troviamo espresso, in un’elegante metafora, il ritratto ideale della venezianità: nobile, magica, seduttiva ed assoluta… proprio come la sua terra.