Federica Spadotto
Dopo un anno di pandemia, che ha completamente cambiato i ritmi di vita, le abitudini ed i rapporti sociali nel mondo intero senza ancora prospettare una data per la cosiddetta “luce in fondo al tunnel”, è emersa alla ribalta della cronaca una notizia abbastanza singolare, che a prima vista mi era parsa addirittura una bufala.
In data 3 febbraio 2021 veniva annunciato dalla commissione europea il piano d’azione per la lotta contro il cancro, di cui un importante fattore di rischio era rappresentato dal consumo di alcool, di qualsiasi natura ed in ogni quantità, anche minima.
Di qui la raccomandazione ai produttori d’inserire nelle etichette moniti allarmistici quali “nuoce gravemente alla salute”, oltre ad aumentare la fiscalità e dissuadere campagne promozionali sul consumo di una bevanda millenaria associata dai proverbi popolari -e da tempi immemorabili- alla longevità.
Ragionando sulla questione questo cambio di prospettiva mi è parso, invece, del tutto coerente con lo stravolgimento delle abitudini cui accennavo poco sopra, poiché l’emergenza sanitaria ha innescato un processo di demonizzazione verso la componente edonistica della vita per sostituire una visione del mondo in cui ciò che procura piacere diviene pericoloso e, nel caso del vino, insano.
Il distanziamento sociale, d’altra parte, dopo più di un anno rappresenta un’abitudine e per molti addirittura un corretto stile di vita, disabituandoci ad accogliere ospiti, uscire per un evento, una cena, o un semplice caffè e considerare un’occasione di svago fare la spesa, rassegnandosi a ritrovare lo sguardo di un amico via skype. In questa prospettiva demonizzare un calice di vino diviene l’ennesimo invito al nichilismo.
Per chi, come me, è cresciuto confidando nella bellezza che salverà il mondo e crede che ci sia una sostanziale differenza tra sopravvivere ed esistere, il solo pensiero di rendere pericoloso il patrimonio culturale veicolato dal vino risuona come un nefasto presagio da cui fuggire.
Nella forzata solitudine del mio studio cerco di consolarmi scorrendo i titoli nella biblioteca che ho già sistemato più volte per sconfiggere la noia di questi mesi, e lo sguardo ricade su Le Baccanti, una tra le più appassionanti tragedie di ogni tempo.
L’argomento non solo calza su misura rispetto alle mie riflessioni, ma soprattutto mi ammonisce a riflettere su dove stiamo andando.
Nel 405 a.C. l’anziano Euripide, intento a mettere sulle scene l’ultimo dei suoi drammi, non avrebbe mai creduto di potersi rivolgere con estrema attualità al pubblico del XXI secolo in piena emergenza sanitaria; eppure la forza dei suoi contenuti trascende il tempo, il luogo e la stessa trama per arrivare all’anima, che per nostra fortuna rimane ancora intatta.
Come annuncia il titolo, protagoniste della storia sono le donne al seguito di Dioniso, nato da Zeus e Semele, figlia del re tebano Cadmo. Per onorare la memoria della madre, il dio del vino e dell’ebbrezza decide di introdurre il suo culto in città, trovando la resistenza del giovane sovrano Penteo. Quest’ultimo tenta invano di sconfiggere la seduzione dei baccanali ed incorre in una fine orribile. Dioniso decide, infatti, di punire la sua resistenza conducendolo nel bosco dove le adepte celebravano il proprio culto allattando cuccioli di lupo o facendo sgorgare acqua dalla terra, per cedere, invece, ad una violenza inaudita quando si accorgono di essere spiate.
Per questo Dioniso, sotto mentite spoglie, consiglia a Penteo di assistere ai riti orgiastici travestito da baccante, denunciando, invece, la presenza dell’impostore a gran voce. A nulla servirono le suppliche del giovane re alla madre Agave, adepta di Dioniso, che, dopo averlo ucciso, agita la sua testa su di un bastone credendo si trattasse di un cucciolo ferino, in preda ad un macabro delirio che, una volta recuperata la ragione, annienterà la sua vita.
Pare scontato interpretare il vino come l’origine della follia, scaturita dalla sconfitta della ragione a causa dell’ebbrezza e trascritta in una favola iperbolica che ammonisce ad essere morigerati.
In realtà i versi più celebri della tragedia suggeriscono ben altro:
E dove non è vino non è amore;
né alcun altro diletto hanno i mortali
Non è il vino in sé, infatti, a far scaturire la follia e l’omicidio, bensì la disobbedienza degli uomini verso il potere divino, che trasforma in un attimo il miracolo in tragedia.
Euripide ribadisce una verità assoluta, ovvero che la vita si trova nelle nostre mani e spetta a noi trasformarla in esistenza (Bios) o in sopravvivenza (Zoe).
A noi e a nessun altro.