Federica Spadotto
Lo ammetto, quando sento o leggo questo nome mi sento un po’ come il Don Abbondio manzoniano.
Alla stregua del celebre personaggio che scorre nella memoria per ritrovare in un cassetto dimenticato il nome del filosofo Carneade, sepolto tra citazioni e termini eruditi, mi pervade una sorta d’imbarazzante confusione nel leggere il divino appellativo in insegne di bar, ristoranti, enoteche, talvolta addirittura tabaccherie, dov’è addirittura sottoposto ad improbabili giochi di parole -credo che non potrò mai dimenticare la storpiatura dell’avverbio esclamativo in “ per Bacco”-.
In un mondo globalizzato alla ricerca di assonanze per rendere familiari i più disparati brand, non dovrei meravigliarmi se la divinità classica legata all’uva ed alla vendemmia rappresenta per il senso comune soltanto il simbolo del vino.
Ne segue una pericolosa omologazione, spesso addirittura fuorviante, che appiattisce un ventaglio di significati da cui non si può e non di deve prescindere: sarebbe come affermare che il vino è una bevanda.
Per quanto ciò sia innegabile, l’assunto oblitera le peculiarità che hanno reso questo prodotto dell’uomo un universo di emozioni, un viaggio attraverso i sensi, un’occasione per celebrare la bellezza della vita e godere di una particolare definizione di felicità.
Lo stesso vale per Bacco, figlio di Giove e della donna mortale Semele, concepito dalla cultura greca classica come una divinità legata alla vegetazione, cui dona linfa e longevità, per trasformarsi in incarnazione della gioia di vivere, dell’estasi e dell’ebbrezza, da cui scaturisce l’associazione al vino.
Rappresentato come un giovane avvenente, la cui natura sovrannaturale coniuga l’elemento maschile e femminile in una sintesi di bellezza idealizzata, vanta come attributi una corona di tralci d’uva ed una coppa in mano.
Nella sua essenza primordiale e mistica si cela il seme di una spensieratezza che può divenire follia, come accade ne Le Baccanti di Euripide, dove l’ebbrezza dei festini in suo onore si trasforma in inconsapevole furia omicida, mostrando all’uomo di cosa può essere capace il suo istinto senza le briglie della ragione.
Quella stessa ragione che, a sua volta, può nuocere all’uomo stesso se non si accompagna alla giusta dose di euforia da cui scaturisce la creazione artistica, come si legge nei versi di Tacito: Nessuna poesia scritta da bevitori d’acqua può piacere e vivere a lungo.
Nel corso dei secoli il culto di Bacco ha subito profondi cambiamenti, per rinascere nell’ispirazione dei pittori con fattezze molto diverse, divenendo un ragazzotto dalle forme debordanti che rischia di cadere da un asino a causa dell’ebbrezza e per questo viene sorretto dai fauni, che tradizionalmente accompagnano il suo corteo; oppure vestendo i panni di un fanciullo immerso tra le viti, come simbolo della stagione autunnale, o addirittura divenendo anfitrione in un banchetto nuziale come auspicio per gli sposi.
Tra le leggende più suggestive che riguardano questa straordinaria divinità ritroviamo, a tale proposito, la storia del suo amore per Arianna, nota per essere stata tratta in salvo dal minotauro grazie a Teseo, di cui la fanciulla s’innamorò perdutamente. Fuggita insieme a lui da Creta, venne abbandonata nell’isola di Naxos, dove sprofondò in un pianto inconsolabile. Sulla medesima spiaggia che vide l’eroe greco andarsene, Arianna incontrò Bacco, che folgorato dalla sua bellezza se ne innamorò portandola sull’Olimpo per prenderla in sposa.
L’emozione di questo episodio si veste ogni giorno con i colori del tramonto nel lembo di roccia lambito dal mare dell’isola greca che ha partorito la leggenda, celebrata nell’antichità attraverso un arco marmoreo. In quel luogo magico risuona l’eco delle parole d’amore che dissolsero le lacrime, donando a chiunque le ammiri una sensazione difficile da descrivere, in cui diverse sfumature dell’animo emergono a poco a poco, s’intrecciano e piano piano svaniscono per lasciare la sensazione di un dolce ricordo… come il declinare del giorno…o come i profumi in un calice di vino.